I due volti del borgo
di Piero Camporesi
Riunire e scegliere una serie d’immagini fotografiche per analizzare visivamente un paese è sempre un’operazione rischiosa, perché la radiografia d’una comunità (di cui le pietre, i camini, le strade, le case sono proiezioni concrete) passa attraverso dimensioni elusive e nascoste, pressoché inafferrabili all’occhio della macchina da presa. Eppure le immagini emanano una loro carica di fascinazione tale da potere, ellitticamente, abbreviare e compendiare un discorso articolato e complesso. Esse indagano sul presente cercando di scavare nel passato. Il fotografo può diventare (talvolta quasi inconsapevolmente) storiografo e le sue foto tramutarsi nelle pagine degli annali visivi, non scritti, del borgo.
La trasmissione della memoria storica, della cultura orale del villaggio (in carenza di fonti più pertinenti) viene archiviata nello specchio silenzioso dell’immagine che assolve la funzione vicaria ma insostituibile esercitata dal parlato nei confronti dello scritto. In questo modo la fotografia diventa, nel suo «eloquente» silenzio, fonte orale d’un gruppo che non si è dato una storia, ma si è affidato alle opere e ai giorni senza ripensare il passato se non in chiave di mitologie paesane o di minuta cronaca genealogica. Una fonte orale muta che si esprime attraverso linee, esterni, interni, scorci, tagli, «soggetti», fonte orale che vorrebbe far parlare, come in una fantomatica rappresentazione corale senza voce, volti, mani, occhi, vie, case, tetti, comignoli, sedie… L’inanimato, il «prealfabetizzato», resi medianicamente animati e parlanti. Con qualcosa dell’allucinazione schizofrenica del dialogo fra le cose o con le cose, con gli oggetti umanizzati. Il gruppo diventa l’anonimo protagonista che recita la propria storia quotidiana. È il gruppo che mette in scena la rappresentazione della sua vita sullo sfondo di scenari aperti o chiusi, di campi o di viottoli, la recita del collettivo secondo forme e ritmi ripetitivi, stilizzati, arcaici.
Questa storia ha registri invisibili, il clima e il tempo, potenti, inafferrabili manovratori che esercitano sulla terra, sugli uomini, sulle pietre, sui vegetali il loro illimitato potere. Il clima, il tempo, le stagioni. E i mestieri che dalla mutazione climatologica stagionale ancora mutuano senso e presenza: i taglialegna coi loro muli carichi di legname (foto 56), l’uomo che manovra la sega sulla porta di casa preparando le munizioni per la battaglia contro la lunga campagna del freddo (foto 18); il contadino (foto 10) che miete ancora con la falce messoria e carica di mannelli la treggia tirata da due giganteschi buoi di razza romagnola (in una foto destinata a diventare un raro pezzo d’archeologia agraria). Passano nei fogli d’album famiglie (foto 54) di pastori (i Collini) e figure patriarcali (foto 51) impensabili senza il campo e la stalla (Beppe della Casetta degli Azzurri), superstiti esemplari di antichi, affollati clan contadini: uomini e donne legati tutti al tempo del ritorno, al ciclo delle stagioni. Sono le stagioni che spingono le scrofe a «fruttare» (foto 49), le bestie ad andare «in calore» e gli uomini ad accoppiarsi secondo il rituale delle nozze (foto 41) che richiede una stagione propizia e collaudata dalla tradizione.
Il «tempo alto» del matrimonio e il tempo di natura degli animali appartengono ai rituali della vita, della fecondità, della moltiplicazione ma anche alla dialettica morte/vita che vede il seme marcire e disfarsi sotto terra allo stesso modo dei corpi defunti. In questa solenne metafora agraria densa di messaggi ambivalenti il giorno dei morti (con l’obolo dei defunti) e la cottura arcaica del pane nel forno domestico (foto 19, 55) rappresentano i due poli estremi della vita e della morte. Un ludus sudato e faticoso che si snoda dalla fatica del contadino che vanga, ara, semina, miete, trebbia; a quella del mugnaio solitario nel suo mulino ad acqua, con lo sguardo assorto, perduto in visioni negate all’uomo «urbano» (foto 34); al lavoro della donna di casa che setaccia, impasta, modella, accende, cuoce. Un grande ciclo di fatiche che trova nel pane il suo punto d’arrivo.
Mani, braccia, occhi, lavoro manuale: il falegname (foto 35) con la gestualità da gran signore del legno e della squadratura (gesti che le culture seriali e standardizzate hanno perduto); il volto sapiente del vecchio fabbro (foto 32) e l’imponente figura del suo assistente e successore (foto 33), nuovo mago «metallurgico», signore della sfera del fuoco che è fuggito dalla banca-prigione, in cui trascinava la sterile vita del contabile «terziario», per trovare la libertà creativa dell’inventore di forme e di cose, l’esperienza totalizzante della mano, dell’occhio, dei sensi. Clamoroso esempio d’una tendenza latente e d’una diffusa insoddisfazione per il lavoro anonimo e opaco che ormai anche nelle città si manifesta a molti livelli. La riscoperta dei mestieri perduti o in via di esaurimento, l’uscita dal condizionamento del lavoro seriale, dal grigiore della «professione» non interessante, sterile, non creativa, soffocante.
Lo scalpellino che taglia e lavora l’alberese (foto 53) offre un altro esempio del rapporto profondo uomo-ambiente, animato-inanimato. La pietra può dar da vivere a chi sa amarla e interpretarla, modellarla e darle forma, geometria, funzione, rivitalizzandola e umanizzandola.
Ma il paese che dà lunga vita ai suoi abitanti (foto 30) e una invidiabile freschezza ai vecchi è luogo stratificato che non si lascia leggere troppo facilmente. È un po’ il dramma dei numeri piccoli, delle comunità ristrette. Dietro la facciata si svolge spesso una vita troppo dura, talvolta amara. Certo, ci sono gli uomini-chiave, i rappresentanti ufficiali delle strutture comunitarie: il sindaco (foto 24), coscienza collettiva, interprete dei bisogni e dei sogni del paese; il maresciallo dei carabinieri (foto 25), simbolo-funzione di poteri extramunicipali; il medico condotto (foto 27) che – forse segno della medicina sociale dei nostri tempi – esercita in un ambulatorio alienante, d’indicibile squallore; il pievano (foto 26) che indossa il disinvolto clergyman, estraneo alla tradizione popolare; lo spazzino-becchino (foto 28) ribattezzato – altro divertente segno dei tempi e della diffusa tendenza alla promozione sociale – «operatore ecologico».
La vita di borgo è difficile perché il controllo sociale del gruppo è intenso e rigoroso. Il potere del collettivo si allunga sul privato, esteso ed alienante, così come la forza del «vicinato», tangibile e temuta. L’occhio e la lingua possono diventare strumenti di punizione e di tormento. La solidarietà del villaggio è vincolata da leggi non scritte. Tribunali segreti (la voce popolare e la mormorazione) colpiscono chi non accetta la norma del gruppo. Al trasgressore non resta che la partenza o l’emarginazione. In un sistema culturale estremamente formalizzato, i cerimoniali assumono un’importanza altrove sconosciuta. Difficile avere una vita privata, sottrarsi al formalismo della comunità. Il circolo (foto 17), il caffè, la parrocchia, la panchina dei pensionati (foto 36), il cortile, le sedie e le panche (foto 37) delle vicine (spesso in lite furibonda fra loro) sono generalmente i luoghi deputati all’elaborazione del dispositivo rassicurante di controllo sociale. Gli emarginati, gli eccentrici, i cosiddetti «scemi del villaggio», sono spesso le vittime d’una igiene mentale sconcertata e conflittuale, d’una legge severa molto più temibile e logorante delle norme codificate.
In questa atmosfera di monotonia opprimente la festa può rappresentare l’uscita temporanea, la parentesi felice per uscire dalla liturgia dell’identico, del quotidiano invariabile. Essa è trasgressiva e ribaltatrice anche nelle feste politiche; gli uomini che sbucciano ridendo le patate nella Festa dell’Unità (foto 11) contravvengono alla divisione delle parti e alla logica dei ruoli che nei paesi sono (o erano?) solitamente delegati alle donne. L’inversione produce riso e la possibilità d’essere temporaneamente diversi alimenta il fascino del tempo sospeso della festa. E quando la festa non c’è o è caduta in desuetudine, la gente sente il bisogno d’inventarne delle nuove. In questa dimensione va letta la «festa dei frutti del sottobosco» (foto 13), nella quale il rilancio dell’immagine paesana passa attraverso l’ecologia e l’economia. Tartufi pregiatissimi (foto 15, 16), ma anche umili castagne (foto 14), un tempo alimento fondamentale della mensa appenninica.
La dimensione ludica paesana innesca ingenue sfide come la gara fra mangiatori di uova (foto 44), o addirittura il gioco un po’ assurdo del «picén», la partita fra battitori di uova (foto 45). Folclore antico e folclore riciclato convivono nelle feste di paese, dove ancora un cantastorie (forse arrivato per l’occasione da altre regioni) o una banda (foto 40, 21) possono ridestare emozioni sepolte e ricordi perduti.
Ma anche al di fuori delle scansioni festive c’è sempre la possibilità d’eludere la monotonia del vissuto quotidiano nel momento concitato e gridato, nella simulazione della zuffa. Si giuoca alla «morra» (foto 46), un giuoco di gruppo suscitatore talvolta di violenze reali, ma molto più comunemente strumento rituale per scaricare aggressività e conflittualità riposte, terapia di gruppo alle tensioni e alle frustrazioni del vivere amaro.
La trasmissione della memoria storica, della cultura orale del villaggio (in carenza di fonti più pertinenti) viene archiviata nello specchio silenzioso dell’immagine che assolve la funzione vicaria ma insostituibile esercitata dal parlato nei confronti dello scritto. In questo modo la fotografia diventa, nel suo «eloquente» silenzio, fonte orale d’un gruppo che non si è dato una storia, ma si è affidato alle opere e ai giorni senza ripensare il passato se non in chiave di mitologie paesane o di minuta cronaca genealogica. Una fonte orale muta che si esprime attraverso linee, esterni, interni, scorci, tagli, «soggetti», fonte orale che vorrebbe far parlare, come in una fantomatica rappresentazione corale senza voce, volti, mani, occhi, vie, case, tetti, comignoli, sedie… L’inanimato, il «prealfabetizzato», resi medianicamente animati e parlanti. Con qualcosa dell’allucinazione schizofrenica del dialogo fra le cose o con le cose, con gli oggetti umanizzati. Il gruppo diventa l’anonimo protagonista che recita la propria storia quotidiana. È il gruppo che mette in scena la rappresentazione della sua vita sullo sfondo di scenari aperti o chiusi, di campi o di viottoli, la recita del collettivo secondo forme e ritmi ripetitivi, stilizzati, arcaici.
Questa storia ha registri invisibili, il clima e il tempo, potenti, inafferrabili manovratori che esercitano sulla terra, sugli uomini, sulle pietre, sui vegetali il loro illimitato potere. Il clima, il tempo, le stagioni. E i mestieri che dalla mutazione climatologica stagionale ancora mutuano senso e presenza: i taglialegna coi loro muli carichi di legname (foto 56), l’uomo che manovra la sega sulla porta di casa preparando le munizioni per la battaglia contro la lunga campagna del freddo (foto 18); il contadino (foto 10) che miete ancora con la falce messoria e carica di mannelli la treggia tirata da due giganteschi buoi di razza romagnola (in una foto destinata a diventare un raro pezzo d’archeologia agraria). Passano nei fogli d’album famiglie (foto 54) di pastori (i Collini) e figure patriarcali (foto 51) impensabili senza il campo e la stalla (Beppe della Casetta degli Azzurri), superstiti esemplari di antichi, affollati clan contadini: uomini e donne legati tutti al tempo del ritorno, al ciclo delle stagioni. Sono le stagioni che spingono le scrofe a «fruttare» (foto 49), le bestie ad andare «in calore» e gli uomini ad accoppiarsi secondo il rituale delle nozze (foto 41) che richiede una stagione propizia e collaudata dalla tradizione.
Il «tempo alto» del matrimonio e il tempo di natura degli animali appartengono ai rituali della vita, della fecondità, della moltiplicazione ma anche alla dialettica morte/vita che vede il seme marcire e disfarsi sotto terra allo stesso modo dei corpi defunti. In questa solenne metafora agraria densa di messaggi ambivalenti il giorno dei morti (con l’obolo dei defunti) e la cottura arcaica del pane nel forno domestico (foto 19, 55) rappresentano i due poli estremi della vita e della morte. Un ludus sudato e faticoso che si snoda dalla fatica del contadino che vanga, ara, semina, miete, trebbia; a quella del mugnaio solitario nel suo mulino ad acqua, con lo sguardo assorto, perduto in visioni negate all’uomo «urbano» (foto 34); al lavoro della donna di casa che setaccia, impasta, modella, accende, cuoce. Un grande ciclo di fatiche che trova nel pane il suo punto d’arrivo.
Mani, braccia, occhi, lavoro manuale: il falegname (foto 35) con la gestualità da gran signore del legno e della squadratura (gesti che le culture seriali e standardizzate hanno perduto); il volto sapiente del vecchio fabbro (foto 32) e l’imponente figura del suo assistente e successore (foto 33), nuovo mago «metallurgico», signore della sfera del fuoco che è fuggito dalla banca-prigione, in cui trascinava la sterile vita del contabile «terziario», per trovare la libertà creativa dell’inventore di forme e di cose, l’esperienza totalizzante della mano, dell’occhio, dei sensi. Clamoroso esempio d’una tendenza latente e d’una diffusa insoddisfazione per il lavoro anonimo e opaco che ormai anche nelle città si manifesta a molti livelli. La riscoperta dei mestieri perduti o in via di esaurimento, l’uscita dal condizionamento del lavoro seriale, dal grigiore della «professione» non interessante, sterile, non creativa, soffocante.
Lo scalpellino che taglia e lavora l’alberese (foto 53) offre un altro esempio del rapporto profondo uomo-ambiente, animato-inanimato. La pietra può dar da vivere a chi sa amarla e interpretarla, modellarla e darle forma, geometria, funzione, rivitalizzandola e umanizzandola.
Ma il paese che dà lunga vita ai suoi abitanti (foto 30) e una invidiabile freschezza ai vecchi è luogo stratificato che non si lascia leggere troppo facilmente. È un po’ il dramma dei numeri piccoli, delle comunità ristrette. Dietro la facciata si svolge spesso una vita troppo dura, talvolta amara. Certo, ci sono gli uomini-chiave, i rappresentanti ufficiali delle strutture comunitarie: il sindaco (foto 24), coscienza collettiva, interprete dei bisogni e dei sogni del paese; il maresciallo dei carabinieri (foto 25), simbolo-funzione di poteri extramunicipali; il medico condotto (foto 27) che – forse segno della medicina sociale dei nostri tempi – esercita in un ambulatorio alienante, d’indicibile squallore; il pievano (foto 26) che indossa il disinvolto clergyman, estraneo alla tradizione popolare; lo spazzino-becchino (foto 28) ribattezzato – altro divertente segno dei tempi e della diffusa tendenza alla promozione sociale – «operatore ecologico».
La vita di borgo è difficile perché il controllo sociale del gruppo è intenso e rigoroso. Il potere del collettivo si allunga sul privato, esteso ed alienante, così come la forza del «vicinato», tangibile e temuta. L’occhio e la lingua possono diventare strumenti di punizione e di tormento. La solidarietà del villaggio è vincolata da leggi non scritte. Tribunali segreti (la voce popolare e la mormorazione) colpiscono chi non accetta la norma del gruppo. Al trasgressore non resta che la partenza o l’emarginazione. In un sistema culturale estremamente formalizzato, i cerimoniali assumono un’importanza altrove sconosciuta. Difficile avere una vita privata, sottrarsi al formalismo della comunità. Il circolo (foto 17), il caffè, la parrocchia, la panchina dei pensionati (foto 36), il cortile, le sedie e le panche (foto 37) delle vicine (spesso in lite furibonda fra loro) sono generalmente i luoghi deputati all’elaborazione del dispositivo rassicurante di controllo sociale. Gli emarginati, gli eccentrici, i cosiddetti «scemi del villaggio», sono spesso le vittime d’una igiene mentale sconcertata e conflittuale, d’una legge severa molto più temibile e logorante delle norme codificate.
In questa atmosfera di monotonia opprimente la festa può rappresentare l’uscita temporanea, la parentesi felice per uscire dalla liturgia dell’identico, del quotidiano invariabile. Essa è trasgressiva e ribaltatrice anche nelle feste politiche; gli uomini che sbucciano ridendo le patate nella Festa dell’Unità (foto 11) contravvengono alla divisione delle parti e alla logica dei ruoli che nei paesi sono (o erano?) solitamente delegati alle donne. L’inversione produce riso e la possibilità d’essere temporaneamente diversi alimenta il fascino del tempo sospeso della festa. E quando la festa non c’è o è caduta in desuetudine, la gente sente il bisogno d’inventarne delle nuove. In questa dimensione va letta la «festa dei frutti del sottobosco» (foto 13), nella quale il rilancio dell’immagine paesana passa attraverso l’ecologia e l’economia. Tartufi pregiatissimi (foto 15, 16), ma anche umili castagne (foto 14), un tempo alimento fondamentale della mensa appenninica.
La dimensione ludica paesana innesca ingenue sfide come la gara fra mangiatori di uova (foto 44), o addirittura il gioco un po’ assurdo del «picén», la partita fra battitori di uova (foto 45). Folclore antico e folclore riciclato convivono nelle feste di paese, dove ancora un cantastorie (forse arrivato per l’occasione da altre regioni) o una banda (foto 40, 21) possono ridestare emozioni sepolte e ricordi perduti.
Ma anche al di fuori delle scansioni festive c’è sempre la possibilità d’eludere la monotonia del vissuto quotidiano nel momento concitato e gridato, nella simulazione della zuffa. Si giuoca alla «morra» (foto 46), un giuoco di gruppo suscitatore talvolta di violenze reali, ma molto più comunemente strumento rituale per scaricare aggressività e conflittualità riposte, terapia di gruppo alle tensioni e alle frustrazioni del vivere amaro.