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La merenda di don Clemente

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Quell’anno cadeva il cinquantenario della ricostruzione del campanile crollato per un terremoto. La scossa non era stata forte e la chiesa aveva subito danni limitati, ma il campanile era imploso in se stesso riducendosi a un mucchio di macerie. All’epoca la pieve contava molte anime e grazie alle donazioni dei fedeli ricchi e alla mano d’opera gratuita prestata da quelli poveri, il campanile fu ricostruito in poco tempo.
Don Clemente leggeva queste notizie nei registri parrocchiali e più ci pensava più si convinceva che bisognava onorare degnamente quell’anniversario. Quale migliore occasione della festa del santo patrono? L’accoppiata sarebbe servita per ridare lustro a quella ricorrenza che si era spenta nel tempo. Anche se, nel frattempo, i più erano emigrati in città nella speranza di una vita migliore e i pochi rimasti non bastavano a riempire la chiesa che pure era piccola.
Erano anni che le feste della parrocchia non erano solennizzate e allietate da un po’ di musica; anzi, per l’esattezza, l’ultima volta che la banda aveva suonato era stato proprio in occasione della benedizione del nuovo campanile. Don Clemente decise di chiamare la banda di un comune limitrofo, che aveva buona fama di repertorio e suonatori. Scese al paese e parlò col presidente della filarmonica che quando apprese il nobile motivo e anche per conquistare una nuova piazza, gli promise un bel servizio a un prezzo stracciato. Concordarono i pezzi da suonare durante la processione e quelli del concerto alla fine delle funzioni religiose per la gioia e il divertimento del popolo.
«Mi raccomando», disse don Clemente «sono cinquant’anni che una banda non viene a suonare nella mia parrocchia. Voglio una prestazione che la gente non se la scordi.»
«Vedrà che faremo un servizio di quelli che sarà difficile da dimenticare anche per lei, mio caro pievano.»
Una stretta di mano e un bicchiere di vino suggellarono l’accordo.
Alla prova della banda il presidente comunicò il nuovo impegno ai suonatori. Avrebbero noleggiato due pullman per portarsi dietro le mogli e i figli in modo da riempire le file delle panche della chiesa che, aveva detto il prete, avrebbe fatto un brutto effetto poco piena. Dovettero poi organizzare anche un terzo pullman per soddisfare le richieste dei sostenitori e dei simpatizzanti che non volevano perdersi l’occasione di una scampagnata.
La festa del patrono cadeva i primi giorni di novembre, intorno a San Martino, la stagione in cui i contadini avevano finito i lavori nei campi e potevano godersela tranquillamente non avendo altri impegni oltre al quotidiano governo del bestiame. Il tiepido sole riscaldava l’aria e illuminava i colori autunnali. Don Clemente non dette importanza alle nuvole che comparvero la mattina della festa e, certo della sua riuscita, aveva invitato i colleghi delle parrocchie vicine per farsi aiutare nella celebrazione delle messe e dare più solennità alla processione del pomeriggio. Ma cupi nuvoloni cominciarono ad addensarsi minacciosi e quando arrivarono i pullman già cadevano i primi goccioloni. I bandisti fecero appena in tempo a scaricare gli strumenti e porsi al riparo sotto la tettoia di un fienile che scoppiò un temporale con i fiocchi. Il cielo si era chiuso in un’uniforme macchia grigia sconquassata da tuoni e lampi e l’acqua cadeva trasformandosi in mille rivoli che andavano ad allagare la strada e il piazzale antistante alla chiesa rendendoli impraticabili.
Don Clemente si rese conto, con grande dispiacere, che la processione sarebbe saltata e che la banda non avrebbe potuto suonare. Decise, comunque, di onorare l’impegno e di mostrare la sua ospitalità nei confronti di tutte quelle persone che erano venute alla parrocchia. Perciò, dopo le funzioni religiose, chiamò i musicanti col loro seguito facendoli accomodare in uno stanzone della canonica e fece apparecchiare un tavolone centrale con la merenda che aveva preparato per la festa. La gente era tanta e quel po’ che c’era finì subito cosicché il prete mandò il sacrestano in cantina a prendere un prosciutto e cominciò a farlo tagliare, ma le fette non facevano a tempo a toccare il tavolo che cento mani si allungavano per prenderle. Nel frattempo alcuni suonatori erano saliti su dei sacchi di grano suonando dei ballabili e qualche coppia prese subito a svolazzare intorno al tavolo. Il sacrestano dovette scendere più volte in cantina portando su nell’ordine: un formaggio, un salame, una coppa, un altro formaggio e, a un certo punto salirono pure le salsicce e il rigatino che qualcuno si prese la briga di cucinare sul focolare della cucina. Le pie donne della parrocchia tirarono fuori dalla credenza anche le crostate e le ciambelle preparate per il rinfresco finale per tutti quelli che avevano lavorato alla festa. Il tutto fu accompagnato da fiaschi di vino rosso e bottiglie di vin santo che bagnarono generosamente le ugole dei commensali.
Nonostante che nello stanzone non ci fosse alcun fuoco acceso e che fuori continuasse a piovere a dirotto nessuno si lamentò dell’umido e del freddo, anzi, i visi rossi e le giacche dei bandisti appoggiate sugli strumenti denotavano un accaloramento generale. Nella confusione delle chiacchiere che si sovrapponevano alle note dell’orchestra improvvisata ogni tanto si sentiva gridare:
«Viva don Clemente! Viva don Clemente!»
E tutti alzavano il bicchiere per un brindisi. Quando dalla cantina cominciò a non arrivare più nulla, i bandisti pensarono che fosse venuto il momento di andare via. Il presidente salutò il prete dicendosi dispiaciuto dell’acqua che aveva rovinato la festa, ma purtroppo la filarmonica aveva sostenuto delle spese e, per andargli incontro, avrebbe rinunciato all’onorario accontentandosi dei soldi per pagare i pullman.
Il passaggio della banda fu visto dal povero prete come un’invasione di cavallette che, in un pomeriggio, gli avevano spolverato le riserve alimentari per l’inverno. E li aveva dovuti pure pagare per venire! Quando tutti se ve furono andati, don Clemente si sedette sulla sedia vicino alla brace che profumava ancora di maiale e disse, sconsolato:
«Questa parrocchia è stata cinquant’anni senza chiamare la banda. Ne dovranno passare altri cinquanta prima che ritorni!»


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Questo racconto è tratto dal libro Il colombaccio albino e altre storie che potete continuare a leggere sul sito http://ilmiolibro.kataweb.it/utenti/90036/pier-luigi-farolfi/ del gruppo editoriale L'Espresso-La Repubblica

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