Piero Farolfi - Immagini e parole
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La partita a carte
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Il vecchio sedeva davanti al grande camino cinquecentesco guardando le lingue di fuoco che danzavano per lui. Raccattò i tizzoni con le molle e prese un tronchetto dal cesto della legna appoggiandolo sugli alari per ravvivare la fiamma. Lo scoppiettio delle braci provocò una nuvola di scintille che si persero su per la canna fumaria. Riaccese per ancora una volta la pipa e, senza nemmeno girare lo sguardo, chiese al vicino:
«Ancora non si vedono?»
«Lo sai che loro arrivano quando l’osteria è piena perché vogliono farsi notare.» rispose il compare, mentre ciccava un pezzo di toscano sputandolo con tiri mirati sulla brace.
L’osteria, in realtà, era il bar della Casa del popolo frequentata dai rossi, che i bianchi del circolo ACLI chiamavano l’osteria del Diavolo perché, dicevano, frequentata da miscredenti e bestemmiatori. Nel paese era conosciuta come l’osteria del Gaggio per via del gestore, un omino nervoso con i capelli rossi e il viso pieno di efelidi.
Il locale si trovava all’interno di un palazzo del quattrocento toscano e svolgeva la sua attuale funzione dopo chissà a quanti altri usi era già stato destinato. Il banco della mescita stava in un angolo con i tavoli posti intorno a corona. In mezzo, una pentola di vin brulé stava in caldo sopra una stufa in terracotta. Nella parete di fronte al camino c’era uno scaffale con libri, riviste e giornali. Sopra era bene in evidenza un cartello con scritto Biblioteca del popolo perché l'operaio e il contadino dovevano sì divertirsi, ma non restare ignoranti; cosi recitava una citazione posta sotto, più in piccolo, di un autore, a tutti sconosciuto, ma che doveva ben rappresentare l’essenza della ricreazione dei lavoratori. A lato, una grande carta politica del mondo, con una bacchetta legata a un chiodo, serviva per spiegare i sommovimenti politici sullo scacchiere internazionale e per indicare località che i più nemmeno conoscevano.
Lo stanzone si riempiva e nei tavoli si organizzavano le prime partite. Quando furono tutti occupati ed era rimasto libero solo quello vicino alla libreria entrarono i protagonisti più attesi della serata. Non sto a dirvi i loro veri nomi perché nel paese erano soprannominati per quello che politicamente rappresentavano. Erano i segretari delle locali sezioni dei partiti che frequentavano la Casa del popolo e la gente li chiamava col nome dei rispettivi segretari nazionali. Perciò Berlinguer era il segretario della sezione locale del Partito Comunista, Nenni quello del Partito Socialista, Saragat del Partito Socialdemocratico. Il segretario della cellula (così si chiamava) del Partito Socialista di Unità Proletaria, nato da una recente scissione dal Partito Socialista e, per questo, privo ancora un riferimento nazionale popolare, si chiamava Mao in onore del segretario del Partito Comunista cinese.
Entravano alla spicciolata, con calcolata indifferenza; sulla tasca portavano i giornali col nome ben visibile: l’Unità, l’Avanti, La Giustizia, Mondo Nuovo; si salutavano, mettevano il cappello sulla cappelliera e si sedevano. Le coppie tenevano conto degli equilibri politici nazionali: Berlinguer e Mao contro Nenni e Saragat. I primi erano detti i rossi DOC perché stavano all’opposizione, mentre i secondi erano chiamati rosso antico, una marca di vermouth che andava di moda in quel momento, perché erano filogovernativi.
La posta in gioco era sempre la solita: un quartino di vino a coppia; chi perdeva, pagava. Si giocava a marafone, poi tre briscole e, nel caso di patta, la bella di nuovo a marafone.
Prima si faceva il punto sulla politica nazionale che risentiva dei blocchi internazionali contrapposti: il Patto di Varsavia contro la NATO. Vere e proprie lezioni di politica per l’uditorio che non comprendeva mai fino in fondo le argomentazioni, ma ognuno si allineava alle verità del proprio segretario. La discussione andava avanti raggiungendo cime incandescenti che finivano sempre con l’augurio che un giorno i quattro partiti si sarebbero di nuovo riuniti perché, in fondo, a tutti pareva strano che si dovesse litigare fra lavoratori che tenevano interessi comuni.
Poi la partita cominciò. Coppe, spade, bastoni, denari. Striscio, busso, ammicco. L’aria si faceva sempre più satura di fumo e gli odori delle persone si mescolavano con quelli del tabacco, del vin brulé e della legna che ardeva nel camino. Intorno al tavolo fiorivano i commenti di approvazione, di critica o di dileggio a ogni giocata. Il barista buttava un occhio ogni tanto, fra un giro e l’altro nei tavoli. Anche i due vecchi seduti vicino al camino seguivano da lontano l’evolversi della partita e se ogni tanto perdevano il punto della situazione perché si appisolavano vinti dal tepore del fuoco, chiamavano il barista per essere aggiornati.
Quella sera vinsero i filogovernativi, ma la sfida fra i quattro sarebbe continuata anche la sera successiva e poi quella dopo e quella dopo ancora perché, al di là del risultato, ciò che contava era il piacere dello stare insieme, la condivisione degli stessi valori, il rispetto della comunità.


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Questo racconto è tratto dal libro Il colombaccio albino e altre storie che potete continuare a leggere sul sito http://ilmiolibro.kataweb.it/utenti/90036/pier-luigi-farolfi/ del gruppo editoriale L'Espresso-La Repubblica

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