Finalmente l’occasione si presentò. I briganti erano a Pistoglio da una settimana, quando don Pietro mandò il garzone Vincenzo a chiamare il Calabrese e Lisagna perché voleva vederli. I due partirono la mattina del 7 luglio dicendo all’Afflitti e a Cesarino di aspettarli lì fino al loro ritorno.
Il viaggio si copriva normalmente con poche ore di cammino, ma, o che se la prendessero con calma o, come è più probabile, nutrissero forti sospetti sulle sue intenzioni, fatto sta che giunsero a S. Valentino il pomeriggio del giorno dopo. Don Pietro li invitò a cena con la scusa che a pancia piena si ragionava meglio e dette inizio all’attuazione del piano che aveva architettato. Mise le serve ai fornelli e mandò Giacomino in cantina a prendere il vino drogato con l'oppio fornito dal fratello farmacista. Poi si misero a tavola. Lisagna bevve parecchio vino, il Calabrese l’assaggiò appena. Don Pietro conoscendo la loro grande passione per la caccia, fra un boccone e l’altro, propose di andare al capanno «a tirare ai merli i quali beccavano l’uva nella Vigna». Il Calabrese accettò. Ma poi, i due «o che fossero entrati in timore, o che, quella notte non vollero dormire in Canonica» e ricomparvero all’alba.
Il Calabrese chiamò l’arciprete che prese le schioppe e insieme s'inoltrarono nel sentiero che portava alla vigna. Lisagna, invece, che la sera prima aveva bevuto molto e accusava ancora gli effetti del vino oppiato, «sentendosi poco bene era andato invece a letto, ma vestito». Arrivati al capanno don Stiffelone, con fare indifferente, «aveva buttato in terra la borsetta dei pallini e chiesto al Calabrese che gliela raccattasse». Mentre quello si chinò per raccoglierla, don Pietro gli puntò il fucile alla nuca e tirò «una fucilata carica a pallini e a palla morendo sul colpo». Tornò di corsa in canonica dove chiese a Giacomino se aveva ammazzato il suo:
- «Il mio l’ho fatto, il tuo l’hai fatto?»
Quello rispose di no, ma che Lisagna era sempre a letto. Mandò la Lucia in camera a controllare. La serva tornò e disse che dormiva, allora ordinò di ammazzarlo. Siccome quello non se al sentiva lo portò innanzi alla camera, ma appena aperto l’uscio al giovane cominciò a tremare il fucile. Allora il prete lo spinse da parte e tirò a Lisagna una fucilata colpendolo verso la bocca; a Giacomino dalla gran paura che ebbe gli scattò il fucile e prese il bandito in una coscia.
Don Pietro ripulì i cadaveri dei denari e gioielli, infuriandosi perché credeva che ne avessero di più e si prese anche una bella schioppa sostituendola con un vecchio fucilaccio. Fece cucire alle donne «due sacchi di ghinea» per metterci dentro i cadaveri, poi ordinò a Giacomo e Vincenzo di caricarli sulla cavalla del cappellano e di portarli alla tesa del monte della Chioda prospiciente il podere delle Muricce.
La mattina del 10 luglio, dietro segnalazione anonima, una colonna di gendarmi e soldati giunse sul posto. I cadaveri furono adagiati su una treggia tirata da un paio di buoi e trasportati a Rocca dove rimasero esposti per molte ore nella cappella mortuaria del cimitero nella speranza che fossero riconosciuti fra i tanti accorsi a vederli, «ma questa diligenza non portò a verun risultato». Poi, a seguito della ricognizione legale, furono identificati «da persone all'uopo inviate da Forlì, e da Faenza» e il sottoprefetto comunicò trionfalmente a Firenze «la gioia universale per la morte di Lisagna e del Calabrese»
Per molto tempo si parlò dei morti ammazzati «alla Tesa della Villa sul monte delle Muricce». Chi diceva che li aveva uccisi il parroco di S. Valentino per prendersi i quattrini che gli avevano dato in deposito e chi invece che aveva avuto l’ordine dal tribunale «o di farli chiappare o d’ammazzarli, ma i più dicevano che prima aveva tirato a fare il suo interesse, e poi aveva preso l’ordine per ammazzarli».
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