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Ogni anno molti Bocconesi risalgono a piedi il sentiero che conduce alla Bastia dove sorgeva l'antica chiesa di San Lorenzo Martire per onorare il Patrono, per ricordare i defunti che riposano nella chiesina e per rinnovare l'antico rito delle "rogazioni" dall'Oratorio della Bastia alla Croce del Castellaccio.
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Giovanni Segantini: A messa prima Che tipo era don Pietro? Un giovane prete di campagna di bell'aspetto, di buona cultura e di forte personalità, con un'attrazione fatale per il rischio, i denari e le donne concupite e sedotte dal suo temperamento. Una vita vissuta sopra le righe sui contrafforti appenninici della Romagna Toscana complice di briganti come il Passatore, Lisagna e Lazzarino. Non abbiamo trovato suoi ritratti, comunque, le poche informazioni raccolte possono essere sufficienti a darcene un'idea sommaria, ma rappresentativa. - «Noi lo chiamavamo di soprannome Stiffelone» disse Lazzarino in uno dei suoi interrogatori. A Forlimpopoli l'Artusi lo riconobbe «dai connotati, dal volto raso, dai lineamenti non rozzi e dal tutto insieme». Alle feste da ballo si travestiva da donna senza togliersi la maschera dal viso, ma i presenti lo riconoscevano «alla figura della persona, alla statura, e alla sveltezza» e Guido Tassinari, becchino di Tredozio, diceva che aveva «una gamba come una lepre». Il delegato di governo di S. Croce quando lo interrogò nel carcere delle Murate a Firenze annotò solo l'età e gli anni di sacerdozio definendolo «come soggetto temibile, per la fierezza del suo carattere, e reputato [...] capace di qualunque vendetta». In generale, più che descriverlo fisicamente, erano gli attributi caratteriali a rappresentarlo: tristo, scaltro, fiero, violento, risentito, vendicativo, imbroglione, immorale, scandaloso, bestemmiatore, eretico, magnetizzatore, pericoloso, feroce, sanguinario. E, certo, doveva essere una somma di qualità che faceva cadere le donne ai suoi piedi al punto che una di queste, Anna Ghetti, gli scriveva: «Addio Pietro ama chi ti adora, ti è fedele e sarà sempre tua a costo della vita». In vendita - su ILMIOLIBRO dove puoi leggere in anteprima i primi due capitoli, su eBay e su AMAZON, - e in formato ebook anche su IBS, MONDADORI, FELTRINELLI e in tutti i principali ebook store. Gli arresti causati dai riveli degli impuni misero alle corde il Passatore che la sera del 22 marzo cadde in un agguato tesogli dallo Zambelli nei pressi di Lugo. Dopo uno scontro in cui morirono due gendarmi, i briganti riuscirono a fuggire. Il Passatore e Giazzolo andarono a nascondersi nel paretaio del fondo Molesa presso Russi, di proprietà degli Spadini, ricchi possidenti terrieri di Faenza. Li vide Vincenzo Guerzola detto Brucione, un poveraccio che viveva alla giornata facendo i mestieri più umili: fra questi l’uccellatore della tesa in questione. L’uomo li riconobbe e corse a informare il governatore Antonio Felici. Da Russi partì un drappello eterogeneo composto da gendarmi, soldati e sussidiari volontari agli ordini del brigadiere Achille Battistini e del caporale Giacinto Calandri. Giunti al paretaio, dopo una diversione per ingannare il Passatore, circondarono il casotto. Il Battistini si avvicinò alla finestra, ma dall’interno partirono due colpi che lo ferirono gravemente; il sottufficiale morì dopo tre giorni di atroci patimenti. I militari risposero con una scarica di fucileria. Il Passatore e Giazzolo uscirono di corsa sparando e fidando del poco tempo che gli altri avevano per ricaricare il fucile. Il primo fu ucciso. Il secondo, benché ferito, riuscì a fuggire. È storia raccontata che il Pelloni riconobbe in Apollinare Fantini l’uomo che otto anni prima l’aveva arrestato e rinchiuso nelle carceri di Russi. Gli sparò mancandolo e l’altro rispose svelto e preciso colpendolo alla schiena. Il Passatore stramazzò al suolo. Subito gli fu sopra il caporale Calandri che gli tirò un colpo a bruciapelo alla testa. Grande fu la polemica su questo secondo colpo che si disse dato senza necessità, ma solo per acquisire meriti nella distribuzione di onori e premi; i sussidiari non volevano dividere il premio con nessun altro e si rifiutarono di sottoscrivere il verbale dello scontro. In realtà, il referto del medico fiscale riconobbe come unica ferita letale quella riscontrata al capo. Seguì il contrasto fra il governatore Felici e lo Zambelli che si appropriò del cadavere con tutti i denari e oggetti preziosi che aveva indosso, e non erano poca cosa; lo caricò su un barroccio e lo portò in giro per la Romagna per esibirlo alla popolazione. Finalmente, la notte fra il 26 e il 27 marzo, il Passatore fu seppellito nel cimitero comunale di Bologna, in un recinto appartato detto il Campo dei Traditori. Di questa macabra esposizione riferì il sottoprefetto di Rocca: «Il cadavere del Passatore fu immediatamente trasportato a Forlì; ieri mattina si tenne per due ore esposto nella pubblica piazza, dove il concorso degli spettatori fu numerosissimo, e s’inviò quindi a Faenza, con l’intenzione di farlo passare a Imola, e Bologna, essendo determinato che in ciascheduna di dette città si effettuasse una eguale esposizione.» Le varie Gazzette riportarono il fatto e ne parlò anche Il fischietto, giornale satirico piemontese che ironizzò sulla sua esposizione: «Che si fa a Roma quando si canonizza un nuovo cittadino del calendario? Si porta in processione il suo cadavere. Ebbene, che altro si fa da tanti giorni in Romagna, che portare processionalmente di villaggio in villaggio, di città in città, il cadavere del martire Passatore?» Il commissario straordinario pontificio si affrettò a distribuire i 3.000 scudi di premio e le onorificenze ai militari distinti nello scontro. Fece «speciale testimonianza di lode e di pubblica riconoscenza» al governatore di Russi per rabbonirlo dopo il contrasto sorto fra lui e lo Zambelli e assegnò «una medaglia d’onore al vicebrigadiere Battistini «che, tutto ferito, pure inanimò coraggioso e ben diresse i compagni», un'altra al sussidiario Fantini «che primo atterrò il famigerato assassino» e un'altra ancora al caporale Calandri Giacinto «che lo rese cadavere nel punto che si rialzava a più disperata difesa» polemizzando con «quelli, che sulla inerzia od inettitudine de’ funzionari e de’ militi nostri troppo ingiustamente irridevano». Secondo i suoi calcoli, il Passatore aveva causato 23 morti nelle truppe austro-pontificie: «13 nei gendarmi, 5 nella linea indigena, 2 nei sussidiari, e 3 fra le I. R. Truppe». La notizia arrivò subito in Toscana. Il 24 marzo, lunedì, giorno del mercato settimanale a Marradi, le persone provenienti dalla Bassa raccontarono l’avvenimento. Come al solito, la storia si gonfiava strada facendo e così i marradesi vennero a sapere che il Passatore era stato ucciso «mentre stava mangiando in un casotto di paretaio nei pressi di Russi in unione ad altri quattro suoi compagni». Nello scontro era rimasto «estinto il Passatore stesso ed altro suo compagno, cadendo gli altri più o meno feriti in potere della Forza, la quale peraltro deplora la perdita di un maresciallo e di un brigadiere». Lo stesso delegato ammise che il fatto si raccontava «in varie guise». Secondo il delegato di Scarperia nello scontro erano rimasti «uccisi sul luogo della mischia, un maresciallo, e due gendarmi dalla parte del governo, ed il temuto Passatore, ed un suo compagno per la parte dei malfattori». Il comandante del reggimento di gendarmeria toscana riferì che alcuni asserivano «che il Pelloni vistosi attorniato e nell’impossibilità di salvarsi si uccise con le proprie mani». Le continue perlustrazioni che andavano a colpo sicuro dietro le precise indicazioni dei pentiti, le bastonature a chi non collaborava, gli arresti, le fucilazioni che proseguivano a ritmo serrato e, per ultimo, l’uccisione del Passatore, dettero un duro colpo al brigantaggio. La rete di manutengoli su cui i briganti fondavano la loro imprendibilità era crollata. In quel momento difficile ognuno doveva pensare per sé. Quelli che ripararono in Toscana si divisero in due bande: la prima era formata da Giuseppe Afflitti Lazzarino, Giuseppe Zanelli Cesarino, Domenico Sabbatani Ghigno e Alfredo Panzavolta l’Innamorato; la seconda da Angiolo Lama Lisagna, Pietro Bertoni Spigone, Antonio Ravaioli il Calabrese, Giuseppe Morigi l’Incantato; Felice Scheda l’Anguillone, si era eclissato per conto suo. In vendita - su ILMIOLIBRO dove puoi leggere in anteprima i primi due capitoli, su eBay e su AMAZON, - e in formato ebook anche su IBS, MONDADORI, FELTRINELLI e in tutti i principali ebook store.
Ne hanno parlato con interesse e simpatia i media locali.
Una ricerca "originale, affascinante, un grande contributo al fenomeno del brigantaggio non solo in Romagna, ma anche in Italia, e sarà di sicuro materiale molto attraente per un grande film sulle 'tre esse' (sangue, soldi, sesso). Un libro che farà rumore." Quinto Cappelli, Il Resto del Carlino "Da accanito cultore della storia locale, Farolfi ha raccontato il brigantaggio da una 'prospettiva' toscana scavando a fondo proprio negli archivi toscani solitamente poco battuti per quanto riguarda le ricerche sul Passatore e compari. E la mole di documentazione sotterrata parla da sé nelle 450 densissime pagine di un volume che vanta anche notevoli appendici e racconta il brigantaggio con un particolare focus su una terra di confine come la Romagna Toscana e con un protagonista - che fa da filo conduttore - come don Pietro Valgimigli, parroco di San Valentino fra Tredozio e Modigliana, che coi briganti ebbe più qualche cosa da spartire." Federico Savini, Settesere "Grazie allo studio approfondito sulla figura di don Stiffelone Pier Luigi Farolfi fa della sua storia il fil rouge per capire personaggi, fatti e situazioni, trattando le gesta della banda del Passatore dall'inconsueto punto di vista del curato di campagna. Un lavoro reso ancor più completo dalle appendici di approfondimento e da una selezione di immagini e documenti." Manuela Cavina, In piazza "Don Valgimigli, il Passatore e i 'Facinorosi pontifici': una ricerca storica sul brigantaggio nelle Romagne e nella Toscana dell'800 durante gli anni della seconda Restaurazione rivisto alla luce di numerosi documenti inediti ritrovati negli archivi toscani." Corriere di Romagna La Romagna siamo noi, la trasmissione su Canale 11 condotta da Pier Giuseppe Bertaccini, il mitico Sgabanaza, ha intervistato l'autore sottolineando come un lettore qualificato e appassionato cultore di storia locale, il prof. Alberto Manni, leggendolo "si è divertito un sacco perché ha proprio ritrovato e scoperto tante belle cose delle proprie radici e del proprio tempo". In vendita - su ILMIOLIBRO dove puoi leggere in anteprima i primi due capitoli, su eBay e su AMAZON, - e in formato ebook anche su IBS, MONDADORI, FELTRINELLI e in tutti i principali ebook store. La neve cadeva fitta a grossi fiocchi quando nel biancore indistinto della notte Lazzarino e Pasottino, bussarono al podere della Casella nei pressi di Poggio alla Lastra. Michele Leoni detto il Fornaciaio si affacciò, passò il lucignolo acceso davanti a quei visi stravolti dal freddo e li fece entrare. Era la mezzanotte del 4 gennaio 1857.
Ma le chiacchiere che il contadino nascondesse i briganti si sparsero subito a Bagno e S. Sofia e giunsero all'orecchio della polizia granducale. Una pattuglia di gendarmi e soldati toscani coadiuvata da una quindicina di uomini della gendarmeria pontificia del vicino paese di Mortano guidati da un informatore del luogo mosse alla volta del podere dove giunse alle sei della mattina del 9 gennaio. Le condizioni climatiche erano proibitive e il tenente Giannini, circondato il casolare, decise di non aspettare e bussò alla porta. Il contadino cercò di tergiversare per guadagnare tempo, ma i banditi, ormai scoperti, tentarono la fuga. Nello scontro a fuoco che ne seguì rimasero uccisi Pasottino e il brigadiere pontificio Tanesini, mentre Lazzarino riuscì a fuggire fino «all'Alpigella sul confine del Popolo di Spescia». Tre colonne si posero al suo inseguimento e quella comandata dal caporale Pagni raggiunse il podere e la mattina dell'11. Il brigante tentò un'ultima disperata fuga, ma la neve era altissima e fu subito raggiunto e arrestato. Il prigioniero fu scortato al quartiere della gendarmeria di S. Sofia e da qui trasferito a Rocca in una vettura per le sue pessime condizioni fisiche e per sottrarlo alla vista dei molti curiosi presenti lungo il tragitto. Il sottoprefetto ordinò di guardarlo a vista preoccupato che qualcuno, temendo per le sue rivelazioni, tentasse di farlo evadere o addirittura di eliminarlo. Le autorità pontificie chiesero la sua estradizione perché era pur sempre un suddito del Papa e la maggior parte dei reati li aveva commessi nelle Legazioni. Anche il governo granducale non vedeva l’ora di levarselo di torno e, dopo averlo interrogato in merito ai delitti commessi in territorio toscano, la mattina del 13 febbraio lo fece scortare fino al confine della Rovere consegnandolo ai pontifici che lo tradussero direttamente a Bologna. Lazzarino fu fucilato insieme al brigante Cunino all'alba del 8 maggio 1857 a Bologna sul terrapieno interno delle mura fra Porta S. Felice e quella di S. Isaia. In vendita - su ILMIOLIBRO dove puoi leggere in anteprima i primi due capitoli, su eBay e su AMAZON, - e in formato ebook anche su IBS, MONDADORI, FELTRINELLI e in tutti i principali ebook store. Il sottoprefetto di Rocca si accordò con don Pietro Valgimigli detto don Stiffelone per catturare i briganti vivi o morti. Ma prenderli vivi era un affaraccio perché «gli assassini sospettando di lui stavano in guardia» e non frequentavano più S. Valentino. A rafforzare i sospetti ci si mise anche il Calabrese che una mattina, ai primi di luglio, tutto imbestialito raccontò «di aver sognato un prete che lo ammazzava per cui tanto esso che Lisagna non avevano più voluto dormire in casa, ma prendevano una coperta e se ne andavano fuori». Segno premonitore il suo! Il garzone Savino lo incontrò e gli disse «che l’Arciprete si lamentava di loro perché non ci andavano più». E i due ripresero a frequentare la canonica.
Finalmente l’occasione si presentò. I briganti erano a Pistoglio da una settimana, quando don Pietro mandò il garzone Vincenzo a chiamare il Calabrese e Lisagna perché voleva vederli. I due partirono la mattina del 7 luglio dicendo all’Afflitti e a Cesarino di aspettarli lì fino al loro ritorno. Il viaggio si copriva normalmente con poche ore di cammino, ma, o che se la prendessero con calma o, come è più probabile, nutrissero forti sospetti sulle sue intenzioni, fatto sta che giunsero a S. Valentino il pomeriggio del giorno dopo. Don Pietro li invitò a cena con la scusa che a pancia piena si ragionava meglio e dette inizio all’attuazione del piano che aveva architettato. Mise le serve ai fornelli e mandò Giacomino in cantina a prendere il vino drogato con l'oppio fornito dal fratello farmacista. Poi si misero a tavola. Lisagna bevve parecchio vino, il Calabrese l’assaggiò appena. Don Pietro conoscendo la loro grande passione per la caccia, fra un boccone e l’altro, propose di andare al capanno «a tirare ai merli i quali beccavano l’uva nella Vigna». Il Calabrese accettò. Ma poi, i due «o che fossero entrati in timore, o che, quella notte non vollero dormire in Canonica» e ricomparvero all’alba. Il Calabrese chiamò l’arciprete che prese le schioppe e insieme s'inoltrarono nel sentiero che portava alla vigna. Lisagna, invece, che la sera prima aveva bevuto molto e accusava ancora gli effetti del vino oppiato, «sentendosi poco bene era andato invece a letto, ma vestito». Arrivati al capanno don Stiffelone, con fare indifferente, «aveva buttato in terra la borsetta dei pallini e chiesto al Calabrese che gliela raccattasse». Mentre quello si chinò per raccoglierla, don Pietro gli puntò il fucile alla nuca e tirò «una fucilata carica a pallini e a palla morendo sul colpo». Tornò di corsa in canonica dove chiese a Giacomino se aveva ammazzato il suo: - «Il mio l’ho fatto, il tuo l’hai fatto?» Quello rispose di no, ma che Lisagna era sempre a letto. Mandò la Lucia in camera a controllare. La serva tornò e disse che dormiva, allora ordinò di ammazzarlo. Siccome quello non se al sentiva lo portò innanzi alla camera, ma appena aperto l’uscio al giovane cominciò a tremare il fucile. Allora il prete lo spinse da parte e tirò a Lisagna una fucilata colpendolo verso la bocca; a Giacomino dalla gran paura che ebbe gli scattò il fucile e prese il bandito in una coscia. Don Pietro ripulì i cadaveri dei denari e gioielli, infuriandosi perché credeva che ne avessero di più e si prese anche una bella schioppa sostituendola con un vecchio fucilaccio. Fece cucire alle donne «due sacchi di ghinea» per metterci dentro i cadaveri, poi ordinò a Giacomo e Vincenzo di caricarli sulla cavalla del cappellano e di portarli alla tesa del monte della Chioda prospiciente il podere delle Muricce. La mattina del 10 luglio, dietro segnalazione anonima, una colonna di gendarmi e soldati giunse sul posto. I cadaveri furono adagiati su una treggia tirata da un paio di buoi e trasportati a Rocca dove rimasero esposti per molte ore nella cappella mortuaria del cimitero nella speranza che fossero riconosciuti fra i tanti accorsi a vederli, «ma questa diligenza non portò a verun risultato». Poi, a seguito della ricognizione legale, furono identificati «da persone all'uopo inviate da Forlì, e da Faenza» e il sottoprefetto comunicò trionfalmente a Firenze «la gioia universale per la morte di Lisagna e del Calabrese» Per molto tempo si parlò dei morti ammazzati «alla Tesa della Villa sul monte delle Muricce». Chi diceva che li aveva uccisi il parroco di S. Valentino per prendersi i quattrini che gli avevano dato in deposito e chi invece che aveva avuto l’ordine dal tribunale «o di farli chiappare o d’ammazzarli, ma i più dicevano che prima aveva tirato a fare il suo interesse, e poi aveva preso l’ordine per ammazzarli». In vendita - su ILMIOLIBRO dove puoi leggere in anteprima i primi due capitoli, su eBay e su AMAZON, - e in formato ebook anche su IBS, MONDADORI, FELTRINELLI e in tutti i principali ebook store. La pieve di San Valentino è posta su uno sprone dell'Appennino tosco-romagnolo nella Romagna toscana, a cavallo fra i comuni di Modigliana e Tredozio. Per la sua posizione dominante è sempre stata coinvolta in fenomeni di brigantaggio e di ribellismo: in epoca napoleonica nascose il brigante Giovanni Montanari detto Buriga, sotto il Granducato di Toscana ricettò le bande del Passatore, di Lisagna e Lazzarino e nella seconda guerra mondiale ospitò il partigiano Silvio Corbari.
Secondo il Repetti, autore del Dizionario Geografico Fisico Storico della Toscana, le sue origini risalgono addirittura all’anno 562 e nel 1841 esercitava la sua giurisdizione spirituale su quattordici parrocchie comprendendo anche quelle di S. Michele in Tredozio, S. Benedetto in Alpe, S. Maria in Carpine, S. Eustachio in Cannetole, S. Giuliano in Querciolano, S. Maria in Castello, S. Biagio in Sarturano, S. Giorgio in Rosata, S. Lorenzo in Scarzana, S. Maria in Ottignana, S. Cesario in Cesata, S. Martino in Collina, S. Andrea in Pereta. All'epoca del Passatore era considerata una buona cura e le entrate del parroco don Pietro Valgimigli detto don Stiffelone, manutengolo dei briganti, comprendevano la rendita di due poderi e alcune «terre spezzate», «le regalie dei capponi dovute per il S. Natale», «le ova, che sogliono corrispondersi dai coloni per le feste pasquali» e «gli incerti di stola bianca e nera». In vendita - su ILMIOLIBRO dove puoi leggere in anteprima i primi due capitoli, su eBay e su AMAZON, - e in formato ebook anche su IBS, MONDADORI, FELTRINELLI e in tutti i principali ebook store. Chi era don Pietro Valgimigli soprannominato don Stiffelone? Un giovane prete di campagna di bell'aspetto, di buona cultura e di forte personalità, con un'attrazione fatale per il rischio, i denari e le donne concupite e sedotte dal suo temperamento. Una vita sopra le righe vissuta sui contrafforti appenninici della Romagna Toscana fino alla morte in luoghi inattesi.
Intorno a lui scorrono le gesta di soggetti temibili come il Passatore, Lisagna e Lazzarino, con la loro corte di manutengoli, che la burocrazia leopoldina classificava come facinorosi pontifici e che rappresentano, con la sua vicenda umana, il sale di questa avvincente storia. La storia del brigantaggio e l'atmosfera di un'epoca in quella terra di confine che erano le Romagne e che si sviluppa nel Granducato di Toscana fino al Casentino, la Maremma e la Val di Chiana, analizzata da una prospettiva granducale con un punto di vista nuovo e originale alla luce di una gran mole di fonti inedite ritrovate negli archivi toscani. In vendita - su ILMIOLIBRO dove puoi leggere in anteprima i primi due capitoli, su eBay e su AMAZON, - e in formato ebook anche su IBS, MONDADORI, FELTRINELLI e in tutti i principali ebook store. Finalmente è uscito il libro che fa il punto sul brigantaggio in quella terra di confine che era la Romagna toscana fra Legazioni e Granducato di Toscana alla luce dei tanti documenti inediti ritrovati negli archivi toscani.
Un nuovo personaggio, fino a oggi poco conosciuto e studiato, si inserisce prepotentemente in queste vicende di violenza, sesso e soldi: don Pietro Valgimigli detto don Stiffelone. In vendita - su ILMIOLIBRO dove puoi leggere in anteprima i primi due capitoli, su eBay e su AMAZON, - e in formato ebook anche su IBS, MONDADORI, FELTRINELLI e in tutti i principali ebook store. Il disegno di Romolo Liverani del 1858 rappresenta Tredozio, paese della Romagna toscana. Su questo ponte i gendarmi incontrarono don Pietro Valgimigli, ex parroco di San Valentino, in una situazione alquanto imbarazzante.
La nostra storia - tratteggiata a sommi capi nella Home Page - inizia proprio qui raccontando l'inizio della fine di don Pietro. In vendita - su ILMIOLIBRO dove puoi leggere in anteprima i primi due capitoli, e su AMAZON, - e in formato ebook anche su IBS, MONDADORI, FELTRINELLI e in tutti i principali ebook store. |
AuthorPiero Farolfi Archives
Novembre 2019
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